Quando si parla di ansia, ciascuno di noi sa ben descrivere quelle spiacevoli sensazioni quali ad esempio l’ aumento del battito cardiaco e della frequenza del respiro, la sudorazione e i tremori o la dilatazione delle pupille e la secchezza delle fauci. Tuttavia forse pochi ritengono di aver bisogno di aiuto o di cure se in una situazione nuova, prima di un esame, oppure dopo un evento doloroso come una separazione o un lutto, sentono comparire alcuni di questi sintomi; così come pochi ritengono di avere dei problemi se dopo un evento doloroso come una separazione o un lutto, provano dolore e piangono.

Infatti, l’ansia, quando è legata ad una preoccupazione realistica e quindi ad un pericolo individuabile nella realtà, funge, con i suoi sintomi molto fastidiosi, da segnale che, se ascoltato, ci è utile a risolvere un problema e/o ad innescare un processo di adattamento di fronte alla minaccia esterna.
Tuttavia, alle volte, può capitare che quella sintomatologia sopra descritta qui insorga senza nessun preavviso e senza nessun apparente stimolo esterno: il cuore inizia a battere più forte, il respiro si fa più corto e un senso di oppressione al torace diventa sempre più schiacciante. Si origina così un particolare vissuto che le persone riferiscono spesso come “angoscia”. In effetti la distinzione terminologica tra ansia ed angoscia è presente solo nelle lingue latine: in tedesco esiste solo l’unico termine ANGST e in inglese l’unico termine ANXSIETY.
Comunque, qualunque sia il modo di chiamare questo insieme di sensazioni fisiche e lo spiacevole vissuto ad esse associato (che tra l’altro può essere anche accompagnato da pensieri negativi , anche di morte), l’ansia non sembra direttamente insorgere in relazione ad un pericolo reale o, in altri termini, il pericolo che l’organismo avverte dando origine alla sua reazione fisiologica non sembra rientrare nella sfera di consapevolezza della persona.
Ecco che a questo punto il lavoro terapeutico si può inserire nella misura in cui il terapeuta può accompagnare la persona in un’esplorazione di alcune aree “dolenti” della sua esistenza al fine di dare voce e finalmente espressione a parti di sé sconosciute o poco consapevoli che, in barba alla razionalità, si fanno sentire attraverso questa particolare sintomatologia.
In termini più pratici il lavoro dello psicoterapeuta consiste nell’andare a recuperare la paura ed il suo oggetto in modo tale che la persona, posta di fonte al pericolo percepito, possa trovare strategie per affrontarlo, arginarlo piuttosto che ridimensionarlo o altro. Si può immaginare quindi come questo lavoro possa avere anche un enorme “effetto collaterale”: la persona, che prima si sentiva insicura e aveva molto probabilmente iniziato ad evitare molte situazioni restringendo così lo “spazio” della sua esistenza, inizia a sentire nuovamente una fiducia in sé data dall’esperienza che “ce la può fare” . Infatti non è evitando le paure che queste scompaiono (anzi, credo che ognuno di noi abbia l’esperienza di come si possano ingigantire quando evitiamo!) ma solo guardandole, riconoscendole e quindi attivando quelle risorse che ognuno di noi ha ma che a volte non sa di avere.

Aumenta così l’autostima e l’autostima a sua volta aumenta la capacità di far fronte a ciò che spaventa… In pratica si interrompe il circolo vizioso dell’ansia e/o del panico e si innesca un circolo virtuoso in cui si possono abbandonare le vecchie stampelle e ci si sente sempre più sicuri nell’affrontare i rischi connaturati ad una esperienza piena della vita. Infatti il rischio è vita e la vita è rischio. S. Kierkegaard, filosofo esistenzialista, affermava che l’esistenza è possibilità e quindi esistere significa essenzialmente scegliere.
Per Kierkegaard, a differenza della paura, che è sempre paura di qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso, ma designa lo stato emotivo dell’esistenza umana che non è realtà, ma una possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è, in base alle scelte che compie e alle possibilità che realizza.